I COMPLESSI DI UN LIBRO COMPLESSO

di Paolo della Bella

Sono nato a Milano nel 1938, XVI era fascista, e francamente non dimostro gli anni che ho. Le mie pagine sono ancora ben conservate, non una piega, una macchia, uno strappo; la mia carta ha preso quel colorito beige chiaro, uniforme: un’abbronzatura discreta e raffinata, tipica dell’età. Non dimostro gli anni che ho, è vero, ma al giorno d’oggi tutto questo non conta, bisogna essere più appariscenti. La forma, la forma perdio! Mi accorgo adesso di non avere un disegno coloratissimo in copertina, anzi, il disegno non c’è proprio. E il risvolto? Non c’è un risvolto e non c’è scritto niente nemmeno in quarta di copertina. Non è certo un buon approccio, oggi tutti vogliono sapere subito cosa c’è dentro un libro, di cosa parla. Basterebbe un sommario, anche molto “sommario”! Penso sia fondamentale per un potenziale lettore, e, soprattutto, per i critici.
Sono alto 19 centimetri, largo quasi 13, non ho una bella coperta, dura e cartonata ed ho una costola rotta. Il frontespizio è un po’ troppo alto, non ho un occhiello e come usava ai miei tempi non sono stato rifilato. Di contro, però, posso dire di avere un “buon carattere”, dei buoni margini, un bel capolettera nella prefazione e un indice esaustivo. Le mie pagine sono ben scritte e, a differenza di molti miei simili, oltre che un “corpo” ho anche un’anima! Insomma, non ho niente da invidiare a nessuno. Tutto questo però, non è sufficiente ad accattivarmi le simpatie del lettore. Non basta! Nello scaffale devi apparire, essere in evidenza, possibilmente posto nel centro e magari tra due libri un po’ più bassi. La costola poi deve sporgere “quanto basta”. Come spesso mi sento ripetere da certi miei colleghi, «devi essere nel posto giusto al momento giusto». A volte penso di essere troppo difficile o complicato, ma non è così, mi sono reso conto invece che, forse, è il mio titolo che non funziona, certamente non invoglia il lettore ad aprirmi. Un libro, strumento per eccellenza del sapere, non può chiamarsi Il viaggio di un ignorante. Parlare d’ignoranza in un libro è un paradosso, un controsenso, perché ignoranza, sappiamo bene che è il contrario di sapere, di cultura, di erudizione.
La mia vita si racconta in un baleno. Ricordo il breve tragitto che mi ha portato dalla tipografia in una vecchia e polverosa libreria, dove ho alloggiato per circa un mese, poi sono stato acquistato dal mio attuale padrone, anche lui ormai in là con gli anni, il quale mi ha sfogliato a malapena una volta e nemmeno tutto. Forse ha letto solo l’inizio: «Cara e dolce ignoranza! A forza di possederti, o di essere posseduto da te (chè non so bene come sia la cosa), credo di aver trovato la tua definizione. Tu sei la verginità della mente: e perciò tanto superiore a quell’altra conosciuta dal volgo, quanto lo spirito immortale sovrasta alla materia caduca. Più: hai quasi sempre l’immenso vantaggio di durare tutta la vita de’ tuoi cultori: quando che l’altra, fatte le debite eccezioni, è solita andarsene coll’aprile degli anni, e qualche volta anche col marzo.
Se il mondo possedesse quella rara facoltà che si chiama buon senso, e quell’altra più rara ancora che è l’arte di stare al mondo, dovrebbe possibilmente attenersi alla più rigida e inviolabile ignoranza.» Ed ancora, «Ma v’è di meglio: più persuaderò me stesso della mia ignoranza infinita, più mi sentirò vicino al gran Platone, il quale in un lucido intervallo di buon senso (cosa possibile perfino nei filosofi) disse quelle famose parole: Hoc unum scio me nihil scire. E fu allora che il mondo maravigliato lo proclamò divino. Peccato che Platone, invanito di quella lode soverchia, si sia contraddetto e mostrato meno che umano, tentando la disperata carriera delle scoperte: così ignorante! E che cosa scoprì? due sciocchezze enormi, che passarono ai posteri sotto al di lui nome, perchè nessun altro ne avrebbe accettata la responsabilità: l’amore platonico, e la republica di Platone: il primo, improbabile; la seconda, impossibile […] Ma qui dirà tal altro: – Come? tu sei ignorante, e scrivi? e stampi? – Ohe, spieghiamoci chiaro per intenderci bene. Io vi desidero tutti ignoranti, e spero lo siate pel vostro meglio: ma sciocchi, no: nè tanto inesperti del mondo da non capire che se tutti gli ignoranti non possono essere autori, almeno gli autori sono quasi tutti ignoranti. Chi tiene in sì alto prezzo i cenci per la carta? Tanti stampatori, e libraj, e compositori di caratteri, e proti, e fattorini, e legatori, ec. chi li fa vivere? Noi, se lo permettete. Facciamo un conto largo che sopra ogni migliajo di libri (e quanti mila se ne stampano in un anno!) 5 sieno ben fatti, utili, e perfino un poco duraturi: ma gli altri 995 a chi sono da accreditarsi? all’ignoranza, che tiene ditta o colla presunzione, o colla vanità, o colla frivolezza; più spesso colla miseria, più spesso ancora con tutte insieme queste sue legittime sorelle. Perciò, in onta a poche eccezioni, si può stabilire la seguente massima: i dotti leggono, gli ignoranti scrivono, e la maggioranza sterminata del genere umano o non sa o non vuol fare nè una cosa nè l’altra.» Ecco qua! Forse sconcertato dalla mia ignoranza, il mio gentile padrone, a questo punto, mi ha chiuso per non più riaprirmi. Sono stato messo su questo scaffale, decisamente il meno bello della casa, il più angusto e il meno illuminato. Da più di sessant’anni non mi sono mosso da qui! E pensare che alla mia età un po’ di movimento mi farebbe anche bene.
A differenza di altri miei amici e compagni, non sono mai stato spostato, quindi non ho quasi niente da raccontare, tranne che sono depresso, avvilito, triste , abbattuto, demoralizzato. Mi sento svilito e denigrato; nessuno, oltre al mio padrone, si degna più, non dico di leggermi ma nemmeno di sfogliarmi, o quantomeno di spostarmi per togliermi di dosso questi maledetti acari che mi fanno allergia. Sono solo, anche se sto insieme a tanti altri miei simili. Per dirla con Leo Longanesi, «Sono talmente solo che lo specchio non mi riflette più».
I miei amici vicini e lontani invece li vedo spostarsi di frequente, vanno e vengono con grande soddisfazione anche di chi li prende e di chi li consulta. Ripensandoci non è solo questione di forma, alcuni devo ammettere che hanno delle pagine straordinarie, scritte in maniera sublime, e meritano di essere quello che sono. Come ad esempio il mio vicino Poesie. Sentite:
«[…] Tu non lo sai quanto gli amici vogliono dire per me,
E quanto raro, quanto raro e strano sia per me trovare
In una vita fatta di tante avversità e di tanti fini,
(Perché davvero non mi piace...lo sapevi? Non sei cieco!
E come sei acuto!)
Poter trovare un amico che abbia queste qualità,
Che abbia, e dia
Le qualità su cui l’amicizia vive.
Quanto per me significhi che io ti dica questo –
Senza queste amicizie – che cauchemar la vita! […]».
Ed ancora:
«[…] No! Io non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo;
Io sono un cortigiano, sono uno
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena a due,
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo,
Deferente, felice di mostrarsi utile,
Prudente, cauto, meticoloso;
Pieno di nobili sentenze, ma un po’ ottuso;
Talvolta, in verità, quasi ridicolo –
E qualche volta, quasi, anche il Buffone […]».
Un altro libro, non a caso tutto scollato dalle volte che è stato aperto, (però queste moderne brochure!) credo abbia il record di consultazioni, tutti in famiglia lo hanno preso e ripreso svariate volte. Va e viene in continuazione, si chiama Valori selvaggi e sta nello scaffale di fronte a me, quello dei saggi sull’arte. Lui è abbastanza giovane è del 1971, ma porta con se i prospetti di suo padre che è del 1946. Eccone un passo che mi ha fatto leggere una sera che per sbaglio era stato messo vicino a me: «[…]. Si è dunque deciso di fare della pittura molto giudiziosa, tutta azzimata, del tutto inoffensiva, seria e cerimoniosa, e così i pittori hanno cominciato a seccare tutti. Ciò ha coinciso con il periodo in cui la società s’è divisa nettamente in due classi sociali: da una parte il fior fiore, dall’altra la grande mandria, considerata come buona giusto a custodir le vacche. Allora il fior fiore, che si credeva molto più furbo degli altri perché aveva un po’ più di cultura, ma che in realtà era molto più stupido perché aveva meno salute e buon senso e vitalità, e poi perché viveva in compartimenti stagni, isolato dalla grande massa viva del popolo, cosa che non poteva non renderlo sempre più stupido e degenerato (e lo vediamo dalla noiosissima e triste gente ricca dei nostri giorni), questo fior fiore, dicevo, s’è messo a decorare i muri con pitture gravi e solenni fatte a sua immagine, e a spiegare al popolino che quella era la grande arte, e che coloro che trovavano noiose quelle pitture lo facevano perché non avevano gusto raffinato o sufficiente istruzione. Glielo hanno tanto ripetuto, al popolino, che sono riusciti a dargliela ad intendere per bene; e lui allora a poco a poco s’è detto: la gran pittura sono dei quadri noiosissimi; più son noiosi, più son raffinati, delicati e di buon gusto; a farli con un po’ di fantasia e di originalità si fa vedere che si dipinge male, che si è ignoranti, non si conoscono le buone maniere. […]».
Lui mi ha parlato anche di singolari e stravaganti suoi amici, che hanno avuto storie tutte degne d’attenzione. Uno, un libricino politico, conosciuto durante un trasloco, gli ha raccontato di essere stato rubato alla libreria Feltrinelli nel 1968, e di essere passato di casa in casa per tanti anni prima di essere “sistemato” in uno scaffale in cantina, all’umido. Un altro, che prima stava su una bancarella, è andato ad abitare in casa di una bella ragazza che, quasi tutte le sere, prima di addormentarsi, lo sfoglia con delicatezza. Ed ancora, quello che è letto esclusivamente sulla spiaggia e quello che è protagonista in un teatro assaporando il piacere del successo; oltre a quello che tutte le mattine, per molti anni, deve scendere presto per andare a scuola. Insomma tutti hanno una storia da raccontare, io no! Non ho niente da raccontare, perché da molto tempo ormai nessuno si ricorda più di me.
La mia condizione mi ha fatto venire dei complessi, lo avete capito, e voglio confessarvi che qualche tempo fa, ho anche provato una sana invidia per un delizioso libro, più vecchio di me ma anche lui con tanta vitalità in “corpo”, che mi è stato vicino una quindicina di giorni. Un libro di biblioteca. Ho invidiato la sua vita sempre in movimento, sempre in prestito. Una volta qua una volta là, quindici giorni in posto un mese in un altro e via di seguito. Certo non tutti i libri di biblioteca sono come lui, anzi qualcuno sta anche peggio di me, se ne sta chiuso e fermo da centinaia di anni. Qualcuno, che era lì anche da tre o quattro secoli, è uscito solo nel 1966 durante l’alluvione a Firenze. Chi invece ha la fortuna di essere “un richiesto” se la passa proprio bene. La più grande soddisfazione di un libro è quella di essere “preso” e letto dal maggior numero di persone. Certo è anche vero, come mi diceva Candido, così si chiama il mio occasionale compagno, che c’è anche il rovescio della medaglia. «La vita di un libro di biblioteca è intensa ma a volte può essere anche sgradevole. Sei molto più soggetto alle orecchie delle pagine, e le pieghe sugli angoli, credimi, fanno male. Puoi capitare fra le mani di persone sgradevoli che ti sfogliano leccandosi continuamente le dita, o fra quelli che usano segnalibri indecorosi. Poi ci sono quelli che ti lasciano qualsiasi cosa dentro, dalla pansé o viola del pensiero che dir si voglia, a un ragno spiaccicato. La casistica si estende a quelli che ti leggono con avidità, senza cuore, fino a quelli che ti scarabocchiano con penne e pennarelli di ogni specie. Infine puoi anche subire l’umiliazione di essere fotocopiato e così via».
Nonostante questo, io vorrei essere come lui, essere “spesso e volentieri” al centro dell’attenzione, invece di non essere mai cercato da nessuno neanche per semplice curiosità. Comunque non demordo, penso di avere ancora tante cose da tirar fuori, e, prima o poi qualcuno dovrà pur accorgesi di me. Sono qui che aspetto fiducioso nella speranza che un giorno arrivi un nuovo padrone e mi metta nel posto che mi merito. Il rischio comunque è quello di fare una brutta fine ovvero di essere portato, come tanti miei amici, al macero. Non vorrei reincarnarmi (o reincartarmi), non so bene come si dice, ve l’ho detto che sono ignorante, in un libro di qualche comico moderno. Spero che la mia comicità vera sia riscoperta, magari da qualche futura generazione. Altrimenti «Eh, andate al diavolo! Non ho più nè voglia nè tempo d’ascoltarvi: la seduta è levata».
in: Confidenze di libri , Divagazioni autobiografiche di libri antichi e moderni con un suggestivo monologo interiore di un e-book, a cura di Mario Scognamiglio, edizioni Rovello - Milano, 2004.
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