«Capricci» fiesolani»

di Vittorio Sgarbi

Paolo della Bella, artista, grafico, poeta, artista-grafico-poeta. Un cognome celebre, una parentela con un artista sulfureo del Seicento toscano, «capriccioso», dotato di un vitalismo intenso, con una vena anche demoniaca. Uomo civile, pronto all’impegno in prima persona, quando in Italia la satira politica non era ancora al servizio di padroni e partiti (o partiti di padroni, o padroni di partiti, a scelta). Uomo contro, la mercificazione, il consumismo di massa, l’annichilimento delle menti di quanto sono protesi a soddisfare bisogni indotti, artificiali. Uomo contro, ma senza sbraitare, senza dimenarsi. L’anti-conformismo non è una qualità che va esibita platealmente; altrimenti, nel mondo dell’esibizionismo di massa per via mediatica, si rischierebbe di essere terribilmente conformisti, «cretini fosforesecenti» (così, bonta sua, Borges definiva i futuristi). Uomo contro dentro, perché il vero anti-conformismo non sta nel vecchio épatement des bourgeois, è una qualità interiore.

Uomo, soprattutto, libero. Libero di pensare, di immaginare, libero di tradurre pensieri e immaginazioni in creazioni artistiche, pittogrammi lirici, epigrammi visivi. Per della Bella, l’arte è stata e continua a essere una grande scuola di libertà. L’arte ci insegna a librarci, ad alzarci in volo, a guardare dall’alto. Illustratore di sogni, della Bella, sempre. Anche il maestro Duchamp, in fondo, illustrava sogni come i surrealisti. Immetteva nell’arte, dunque nella vita, elementi di sconvolgimento delle nostre certezze come capita di avvertire nei sogni. Sogni che si fanno vita, vite che si fanno sogni. Sogni che si concentrano in un’intuizione grafica, un piccolo corto circuito dei sensi e della mente che ne genera altri, come una catena infinita. Sogni che ci sognano, che sognano sé stessi.

Paolo della Bella, artista-grafico-poeta-Fiesole. Fiesole è l’universo di della Bella, un modello di vita, di progresso, di società. Se la vita e la carriera artistica di della Bella sono fatte di costanti e di variabili, una costante, e fra le più solide, è certamente Fiesole. Della Bella è l’incarnazione culturale e sentimentale di quello che una volta si definiva il genius loci, lo spirito, l’anima di un luogo. della Bella respira Fiesole, si nutre di Fiesole, pensa Fiesole, e Fiesole trova giovamento dal suo essere respiro, nutrimento, pensiero. Si può dire, ormai, che della Bella faccia parte di Fiesole non meno di quanto Fiesole faccia parte di della Bella. Un rapporto indissolubile, una fedeltà d’altri tempi. Eppure della Bella non è artista di Fiesole: non la illustra, non ne tesse le lodi, non ne canta le gesta. Artisticamente, della Bella ha sempre guardato oltre Fiesole. Non per superarla, anzi. La sfida di della Bella è consistita nel fare arte e cultura qualificata in provincia, dove è facile, per ragioni strutturali più che per mentalità inadeguate, fare arte e cultura provinciali. Una sfida tanto più difficile perché la concezione dell’arte di della Bella non è individualistica. Avesse fatto come Giorgio Morandi, che si è chiuso in uno studio, a Bologna, in Via Fondazza, e ha presunto che il suo universo chiuso in quattro muri coincidesse con tutto il mondo, l’operazione sarebbe stata più facile, ma anche più precaria, legata a una certa idea dell’arte, romantica, incentrata sul valore primario dell’individualismo espressivo. della Bella non crede, come Morandi, che l’artista debba essere solo contro il mondo, in beata, superoministica solitudine; al contrario, crede nell’anti-romanticismo di Walter Benjamin, nella svolta definitiva che la riproducibilità tecnica ha imposto all’arte dei nostri tempi, a scapito dell’individualismo, dell’aura, del feticcio artistico come unità indissolubile e irripetibile di spazio-tempo-spirito, mai uguale a sé stesso. Fin dai tempi di Gruppo Stanza, quando era impegnato in quella che Eco ha chiamato la «battaglia dei multipli», della Bella crede a un’idea dell’arte come comunicazione in larga scala, dunque come partecipazione, nella fruizione come nella produzione dell’arte. Il migliore Daumier non è quello congelato nei musei, a dimensione esclusiva del gusto estetico, disinfettato, reso asettico rispetto al contesto di attualità da cui proviene, ma quello militante che si sporcava le mani nelle vignette satiriche del Charivari, che sputava sui potenti, e che veniva censurato, minacciato, incarcerato per questo. Nei tempi della società di massa, non si può più credere di poter stare ancora in una torre d’avorio: bisogna scendere da essa, o almeno affacciarsi per cercare di dialogare con chi ci sta attorno. Per rappresentare il mondo, bisogna farne parte concretamente, non guardarlo da un altro pianeta. Anche quando non si voglia per forza fare gli eroi, come Daumier. Non è certo il caso di della Bella, che con la vita ha stabilito un rapporto di confidenza diretta, un vis à vis quotidiano fatto ugualmente di piccole e grandi cose, ma sorprende, qualche volta, constatare come molti grandi artisti abbiano un rapporto alterato con la vita reale, quella praticata dalla maggioranza delle persone «normali». Non riescono a stabilire relazioni effettive con essa, non la capiscono, anche quando pretendono di farlo. Eppure, questo genere di emarginati, di «dissociati sociali», è talvolta in grado di produrre grande arte. Proprio perché estranea alla contingenza del mondo, fuori dalla sua attualità, dalla sua dimensione pratica, materiale. Non bisogna sorprendersene: come in molti hanno notato, l’arte è il campo in cui una falsità può essere riconosciuta come un valore assoluto, apprezzato universalmente, imparentandosi strettamente alla religione. E’ questa la sua grande differenza con la scienza, che invece ha la necessità di perseguire, se non la verità, che non è concessa ai comuni mortali, quanto meno il più attendibile.

Ma non divaghiamo, torniamo a della Bella. Il fatto che non concepisca una visione individualistica dell’arte, che creda a essa come a un fatto partecipativo, collettivo, di gruppo, non vuol dire che non creda alla soggettività dell’arte. Ogni collettività è un insieme di individui, ognuno con le proprie peculiarità, il proprio modo di pensare e di sentire, la propria esperienza del mondo: in una parola, il proprio io. Chi ha creduto, nella storia dell’umanità, di annullare la soggettività insita in ogni collettività, ha finito per provocare drammi spaventosi. L’approccio all’arte di della Bella è assolutamente soggettivo, non potrebbe essere altrimenti. E’ nella soggettività che riconosce il contributo dell’artista al fatto collettivo, perché la collettività è una funzione, non la condizione. La cosa importante è che sia una vocazione, una disponibilità del soggettivo a potersi fare fatto collettivo, in modo da poter diventare motivo di condivisione da parte di altri soggetti.

Quando un artista si accorge che, attraverso le sue opere, persone diverse da lui s’impossessano in qualche modo di parte della sua soggettività, quando queste persone riconoscono questa parte di soggettività altrui meritevole di diventare parte della loro soggettività, patrimonio dei loro sensi e delle loro menti, quando questo processo si estende in modo tale da fare in modo che il patrimonio così acquisito da singoli soggetti sia motivo di riconoscimento per un’intera collettività, allora un artista può dire di essere arrivato al massimo traguardo conseguibile. Io credo che a della Bella sia capitato, e non di rado.

 

 

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