Liberamente ho riso

di Barbara Briganti

Conosco Paolo della Bella da molti anni. Ma non avendolo mai incontrato personalmente è stata una conoscenza in qualche modo paradossale. Come la sua opera del resto. Entrammo in contatto in occasione di una mostra stravagante che si svolgeva, se non ricordo male, in Svizzera. Di quell'evento avevo scritto brevemente su Repubblica. E poichè Paolo era affascinato dall'artista, mi telefonò. Organizzammo così un singolare scambio che si rivelò, almeno per quanto mi riguardava, proficuo. Gli spedii il catalogo e ricevetti come contropartita, un volumetto illustrato che conteneva testi e poesie. Aveva un titolo che sembrava un ossimoro: Bugie vere, ed era chiuso con un'ironico lucchetto. Le poesie mi piacquero ma ancor di più mi affascinarono le illustrazioni, che interpretai come una gioiosa e crudele collezione di esseri fantastici piuttosto inquietanti - malgrado oppure proprio a causa - della loro colorata esuberanza.  Per un po' continuai a levare e mettere con puntigliosa determinazione il lucchetto, in seguito confesso di averlo smarrito.

Tempo dopo - seguendo questa linea delle intermittenze della mente - fu pubblicato Forse Queneau seguito da Mirabiblia. Il personaggio della Bella si stava rivelando molto versatile, e a quel punto lo vedevo spaziare in un campo al quale ero in qualche modo legata da un  ricordo ormai antico.

Quando frequentavo il liceo ebbi la fortuna di capitare con un professore di letteratura francese la cui intelligenza era sufficientemente provocatoria e intrisa di curiosità sperimentale. Oggi con una certa ovvietà lo definiremmo un creativo. Ma allora i tempi erano scanditi dalla piatta responsabilità di programmi scolastici capestro e non si sfuggiva allo studio di una quantità deprimente di testi e poemi che non riuscivano a far risuonare alcuna eco in quell'assemblea di zucche vuote. Un giorno, di punto in bianco, fummo messi di fronte "all'incontro fortuito su un tavolo settorio tra un ombrello e una macchina da cucire". Dopo tanta poesia romantica, tanto Lamartine e Victor Hugo, Lautréamont ci fece letteralmente l'effetto di una bomba. E poiché, sorprendentemente, quell'accolita di studenti solitamente distratti rispose positivamente, lo spiraglio si allargò e fummo introdotti alle delizie della letteratura surrealista, dei cadavres exquis, dell' "Hôtel des Sens" eccetera eccetera. Ci fu inoltre assegnato un compito tanto singolare quanto anomalo: cosa si poteva trarre, nello stile di OULIPO, dall'espressione "l'écriture automatique". La cosa fu accolta con divertita partecipazione. Fu un pomeriggio esilarante anche se non molto proficuo, trovammo la pubblicità per un beveraggio alla kriptonite "Lait Kritur au Thomatik", la triste storia di un topo ammaestrato infestato dalle zecche e ucciso dagli urli del padrone "Les cris tuent rat Tom à tiques", un rimprovero sentito ad un greco con problemi digestivi "Aigri, tu rottes, homme attique", una cupa profezia "Les cryptes auront Thomas Tic" e qualche altra diversa versione, ma già la qualità andava rapidamente deteriorandosi. Il gioco, diventato troppo difficile, finì. Rimase un ricordo luminoso e lieve in una carriera scolastica alquanto cupa.

I dizionari più pazzi del mondo sono stati a lungo un serbatoio di sorprese. Spaziavano dal serio al faceto con grande versatilità, ma senza sussiego. La  versatilità ha anche un lato nobile e potrebbe in quel caso prendere il nome di leggerezza. Guardando questo catalogo di un opera scaglionata su più di trent'anni mi sembra di poter affermare che Paolo della Bella abbia fatto della leggerezza la principale costante della sua vita artistica.

Tra i suoi disegni c'e n'è uno che sembra un'illustrazione dei resoconti di viaggio che Marco Polo faceva al vecchio e disincantato Kublai Khan. E' una città irta di torri e di tetti aguzzi, simile ai borghi in cui vivevano gli scalpellini fiesolani del medioevo, ma costruita su un ponte che ricorda l'arcobaleno. Forse sentendone parlare, il Gran Khan avrebbe chiesto informazioni più precise su questa città talmente leggera da scavalcare il mondo, e Marco avrebbe risposto che ciò che sostiene il ponte è solamente la linea delle pietre che compongono il suo arco.

La leggerezza - quando sempre citando Calvino "è un valore e non un difetto" - sta nella linea. E questo lo sapeva bene anche Picasso. Avevo sempre pensato che la perfetta trasposizione in veste grafica della prima delle Lezioni Americane, quella dedicata appunto alla leggerezza, era tutta rintracciabile nella serie dedicata dal pittore spagnolo al ritratto di un toro, undici litografie via via piu sintetiche nelle quali togliendo peso e materiale inutile l'artista arrivava progressivamente all'essenza delle cose. Trovare il toro di Picasso citato in questo libro mi ha spinto a rileggere le Lezioni Americane per cercare e trovare, con infantile soddisfazione, altre coincidenze. Ed ecco l'esile lancia di Don Chisciotte impigliata nelle grevi lancette dell'orologio come nelle pale dei mulini a vento, e ancora Pegaso, il cavallo alato nato dall'orrido sangue di Medusa, e libri che volano come uccelli, e anatomie scarnite di tutto fuorchè del sangue e del sentimento, ecco farfalle  e volatili colorati,  giochi di parole lievi e schemi di danze equestri, e infine un esplosione di punti colorati "che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d'impulsi magnetici".

Non so se Calvino quando parlava della leggerezza intendesse veramente questo, ma a me la parola ha sempre evocato una sensazione di felicità. Quando "nulla può sfuggire allo sguardo inesorabile di Medusa", quando divenda insostenibile "la pesantezza, l'inerzia, l'opacità del mondo", l'unica via di fuga verso un altrove diverso è rappresentata dal volo, dal sogno, dall'assenza di gravità, dalla fuga appunto su un cavallo alato. Di questa assenza di pesantezza Paolo sembra possedere il segreto.

Come lo possedeva il suo antenato Stefano, compagno di viaggio ritrovato in questa occasione, quando disegnava cavallini minuti e rampanti montati da cavalieri impennacchiati che eseguivano per la corte granducale complicati balletti nel grand decor barocco dei giardini di Boboli. Nelle sue incisioni Stefano della Bella documentava, tra le tante cose, spettacoli acquatici e pirotecnici, ballerini e caroselli, tutto l'armamentario dei piaceri di corte e della magnificenza principesca, tutto quanto rappresentava nella sua epoca l'eclatante visione della felicità esibita e del potere.

La sottile linea che separa la felicità dalla malinconia - melancolia, la bile nera - è appena percettibile, come sanno molto bene i poeti, e "l'inseguimento perpetuo delle cose, l' adeguamento alla loro varietà infinita", l'impossibile controllo del mondo, sia esso quello reale o quello onirico porta inesorabilmente ad una visione ombrosa e talvolta lievemente amara. A nulla serve tentare il catalogo dei luoghi della gioia o memorizzare l'esplosione della festa, dietro apparirà sempre l'ombra del mondo.

Ma per chi ha il dono della leggerezza, la melancolia acquista la grazia che può trasformala in umorismo. Ed è questa condizione, così poco italiana, che ho colto nell'opera di Paolo. Essa mi è venuta incontro ilare e veloce, quasi fosse una creatura festosa giunta da un'altra realtà, da un altro mondo. L'ho accolta incuriosita e ho riso gioiosamente. Liberamente ho riso.

 

 

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