Anna Forlani Tempesti
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Della Bella è un cognome parlante, e impegnativo, per un artista.
Lo Stefano del seicento e il Paolo di oggi hanno tenuto fede all’impegno:
bella è appunto la loro maniera, anzi la loro grafia. Perché il
primo fu un «grafico puro» che, sia pure con infinite e sottili
variazioni, si espresse soltanto col segno della penna e delle matite
per il disegno e dell’ago per l’acquaforte (salvo rari episodi
di pittura), e il secondo ha sperimentato molteplici tecniche ma sempre
servendosi del segno, grafico o verbale (ce lo ha ben spiegato Laura
Corti). C’è un’ascendenza familiare fra i due? Ci
diverte sospettarlo. Ci sono delle coincidenze nell’arte? Se ne
possono trovare, ovviamente in senso lato: fantasia, ironia, eleganza,
varietà nella fedeltà, immediatezza nella comunicazione,
gusto per lo spettacolo della vita, adesione intensa ma non seriosa alla
cultura del proprio tempo.
Nel percorso di Stefano della Bella (Firenze 1610-1664) queste qualità sono
state ampiamente riconosciute, dal coevo Baldinucci (1681) a Mariette
e Jombert nel settecento, fino al De Vesme (1906) e ai più recenti
studiosi (Massar, Viatte, Forlani Tempesti), in un crescendo di interesse
soprattutto per le sue più che mille acqueforti, ristampate e
copiate, conservate in collezioni di ogni parte del mondo e più volte
esposte. Migliaia, ma meno divulgati, sono i suoi disegni, la maggior
parte in raccolte pubbliche europee (gli Uffizi, il Louvre, Windsor),
spesso preparatori alle incisioni e alle loro tematiche, ma anche indipendenti,
come gli schizzi dal vero e gli studi per costumi o per oggetti d’uso
(vasi, bicchieri, else di spade, ostensori, scatole, perfino fuochi d’artificio).
Un topos ormai corretto faceva di Stefano un mero seguace del
più celebre Callot, dal quale difatti trasse esempi di tecnica
e di soggetti, ma interpretandoli in modo personale e intercalandoli
a studi da incisori italiani e nordici anche più antichi. Tenne
a fondamento la cultura fiorentina, da Leonardo, di cui nel 1630 copiò il
trattato della pittura, a Buontalenti e Cigoli, da Furini a Giovanni
da San Giovanni, agli scenografi Parigi, al mentore Cantagallina, all’amico
Baccio del Bianco, con cui condivise studi di vita contemporanea, di
teatro, di satira e di caricatura. Ma fu anche attento ad altre più moderne
culture, soprattutto durante i ripetuti soggiorni a Roma (negli anni
trenta e cinquanta): i paesaggisti olandesi e Claude Lorrain, i bamboccianti,
l’ambiente antiquario di Cassiano dal Pozzo, Bernini e Pietro da
Cortona, i bolognesi e Cantarini, Grechetto e Salvator Rosa. Nel 1644
fu in Olanda (abbia o no conosciuto Rembrandt, ne ammirò certo
le incisioni) e giunse in medio Oriente; visse per un decennio a Parigi
(1639-1650), molto attivo per stampatori ed editori locali e per la corte
(Richelieu e Mazzarino gli furono diretti committenti), lasciando una
lunga scia di esempi, fruttuosi fino al settecento. Sempre protetto e
stipendiato dai Medici, ne celebrò imprese e avvenimenti, come
documentano le pur poche opere qui esposte.
La loro scelta è stata limitata, in coincidenza con la presente
rassegna, ai temi della festa e del gioco, quasi ad illustrare l’incipit della «vita» di
Stefano del Baldinucci: «non si faceva in Firenze pubblica festa
o trattenimento, o fosse di giostra o di tornei o di corsi de’ berberi
al palio, che egli prima non si portasse curioso a vederle ed osservarne
ogni più minuto particolare, e poi tornatosene a bottega non disegnasse»,
sul foglio o sulla lastra. Vi si leggono però in trasparenza anche
gli altri soggetti prediletti dall’artista - il paesaggio, le vedute,
la decorazione, l’araldica più fantasiosa, le donne e i
bambini, gli animali, le cacce, le battaglie, i viandanti - la vita insomma,
e anche la morte, che poteva esser trattata con mano lieve, come spettacolo.
Spettacolo, secondo la tradizione tardo manieristica che esploderà nel
barocco, era difatti l’addobbo della chiesa di San Lorenzo ideato
da Alfonso Parigi nel 1634 per i funerali del principe Francesco, che
Stefano registra fedelmente sulla falsariga callottiana ma con un più di
realtà e di luce-ombra pittoresco (n. 2). Spettacolo di vita era
stato il banchetto dei cacciatori «Piacevoli», che il giovinetto
della Bella aveva rievocato con acerba vivacità nel 1627 per ingraziarsi
il loro e suo futuro protettore Giovan Carlo de’Medici (n.1). Veri
e propri spettacoli teatrali furono alla base delle belle acqueforti
illustranti le feste per le nozze di Ferdinando II nel 1637 (nn.3-6),
mentre personale invenzione e mero divertimento furono le carte da gioco
per il Delfino (n.8) e i due rebus (nn.9-10) ideati durante il soggiorno
in Francia. Di nuovo vivaci registrazioni di spettacoli furono le grandi
stampe sui festeggiamenti per gli arciduchi d’Austria del 1652
(nn.11-12) e per le nozze di Cosimo III nel 1661 (nn.15-17). Ma perfino
nelle vedute della villa di Pratolino (nn.13-14) Stefano vena di giocose
interpretazioni la puntuale e quasi commossa adesione alla realtà dei
luoghi.
Quanto ai disegni, la scarna scelta che si è potuta qui esemplificare
verte su due specifici temi: i personaggi «caricati» e i
costumi teatrali. I primi, sulla traccia figurativa leonardesca e in
sintonia con la coeva letteratura giocosa, hanno tangenze con l’ammirato
Callot e poi con l’amico Baccio del Bianco, al quale difatti erano
in gran parte attribuiti (nn.I-II). Rispetto a questi artisti però,
come del resto avviene nelle serie di incisioni di analogo tema da lui
inventate nella prima giovinezza e nel tempo francese e in un più tardo
taccuino di disegni addirittura pre-tiepoleschi, della Bella ha un segno
più vibrante, una spazialità più atmosferica, una
verità di gesti che danno un tono addirittura patetico alle buffe
figure: esse, come lo scherzoso Pulcinella (n. III), erano studiate dal
vero, perché in un’epoca che esaltava altamente la professione
della buffoneria (n.7) molti caramogi - persone piccole e contraffatte,
secondo il vocabolario della Crusca - vivevano presso la corte con funzioni
di buffoni, attori e servitori. I costumi invece (nn.IV-V) sono brillanti
esperimenti della diretta partecipazione di Stefano all’allestimento
degli spettacoli che inaugurarono il teatro della Pergola nel 1658, in
cui egli libera tutta la sua meravigliosa fantasia e la sua «bella» leggerezza
di tocco.